Ora che ho avuto tempo per metabolizzare vi racconto la scenetta vissuta qualche settimana fa all’ospedale di Fano.
Dovevo fare le lastre alla schiena, e appena entro nell’ambulatorio il tecnico mi guarda sbalordito, e chiede “ma tu sei in carrozzina?”.
“Sì, qualche problema?!”.
“Stamattina si è rotta la pedana per salire nel macchinario, quindi devi tornare un altro giorno”.
Capite bene che mi sono infuriata come fossi alla finale mondiale dei 200m sl tra un’ungherese e una statunitense, ma ho tentato di mantenere il mio stato di flow fino alla fine, o non ne saremmo usciti.
“Calma, innanzitutto non torno qua un’altra volta perché non ho mattinate da buttare via, secondo adesso troviamo una soluzione perchè ho sempre fatto le lastre seduta su uno sgabello, quindi non vedo perché qua non dovrebbe funzionare”.
Continua a fissare la ricetta della radiografia, infastidito dal fatto che io non stia in piedi, ma alla fine dice “ok proviamo”.
Mi siedo in bilico su una sedia, il tecnico continua a gingillarsi guardandosi intorno e mi chiede “stai comoda?”.
Io spazientita “magari se ci diamo una mossa torno a sedere nella mia comoda carrozzina”.
Ragazzi, si è alzato tre volte per andare a controllare che le porte fossero chiuse! Alla fine dice “no non si può fare il macchinario non arriva alla tua schiena, quindi devi andare all’ospedale di Sassocorvaro”.
Ormai prendo fuoco dalla rabbia “possibile che non trova una soluzione invece di dirmi di andare via? Devo tornare all’ospedale di Urbino dove sono molto più competenti?”.
Alla parola competenza gli si accende una lampadina e chiama un collega evidentemente più esperto che gli suggerisce di girare semplicemente la macchina in modo che arrivasse più in basso.
Sono tornata a casa amareggiata avendo constatato che a volte un ospedale è il posto più distante dalla disabilità e dal prendersi cura delle persone.
E’ fondamentale cambiare la prospettiva perché spesso i problemi sono risolvibili con un’ottica differente.